

Arianna Tinulla Milesi, Sei una vacca, 2020, matita e pastelli acquarellabili su carta da acquarello, 42x30 cm
Trovo che le rovine della classicità greca, esempio di società patriarcale, descrivano efficacemente la situazione femminile nei secoli e forse in particolar modo ora. Sono maestosi blocchi di marmo in pezzi, il baluardo di una civiltà grandiosa e altrettanto grandiosamente maschilista che non perdonava l’essere nata donna nemmeno alle divinità. Perfino le Dee venivano comunque da improbabili partenogenesi di Dei maschi, come Atena che, ci ricorda Morgan, è stata “cagata fuori da un’emicrania” del padre Zeus. Le donne sono relegate al ruolo di trofei, bellissime, a volte intelligentissime, ma mai gratuitamente indipendenti. Sono creature da soggiogare che si ingegnano, e ingannano, per fuggire a esseri maschili che le vogliono possedere. Vengono dipinte ed esistono in relazione all’uomo.
In questo senso trovo particolarmente interessante e iconico l’Eretteo ateniese, tenuto letteralmente in piedi dalle Cariatidi. Loro sono l’emblema della condizione femminile, impavide sorreggono tutta la struttura, pudiche, forti, non necessariamente per scelta. Non possono concedersi distrazioni o debolezze perché causerebbero lo sbriciolamento della struttura sociale versata su di loro.
Il loro inestimabile lavoro sta nella statica coriacea, le hanno messe lì e loro da più di duemila anni nonmancano un giorno alla loro silenziosa, poderosa missione. Tutto questo le logora, perfino la loro carne lapidea si erode alla pioggia di giudizi e difficoltà, la nostra naturale condizione di subalternità. Ho trovato quindi queste architetture ben più organiche di quelle di Calatrava, ci ho letto davvero l’organismo malato e barcollante dell’Occidente.
Come smontare questa “architettura sociale”?
Per cominciare riappropriandoci con ortodossia e ironia del linguaggio, inteso esattamente come espressione della struttura del pensiero, che ci viene soffiato come polvere marmorea addosso e dentro. Sartre sosteneva che «L’importante non è ciò che hanno fatto di noi, ma ciò che facciamo noi stessi di ciò che hanno fatto di noi.» Credo che questa citazione abbia in sé un aspetto distintivo della condizione femminile, l’importante è come rispondiamo, come reagiamo per smontare tutto senza distruggerlo ma cambiando la sua forma verso una maggiore equità, non nata dai metodi coatti, possibilmente, ma dall’ironia e dal dialogo attivo.
Da questi pensieri sono partita per dare forma e titoli ai miei disegni che sono quattro e possono essere considerati due dittici:
– “Quella è una vacca” e “Sei una balena”;
– “Non fare la civetta” e “Sei un’oca”.
La prima coppia rappresenta rispettivamente il tempio di Zeus a Nemea (con colonne tortili – tampone per l’occasione), e il tempio di Atena (ex Afaia) a
Egina. Il primo disegno prende in giro l’incoerenza del giudizio negativo maschile sulle donne che gestiscono la propria vita sessuale in modo giustamente autonomo (dando loro “delle vacche”) salvo poi essere pronti a trasformarsi in tori pur di possederle, come fa appunto Zeus con Europa.
La seconda opera si riferisce ad un altro tabù femminile, la legge non scritta del giudizio sulla forma fisica, la dittatura dell’avvenenza. L’insulto puerile
di accostare la balena, animale bellissimo e maestoso, enorme, alla vergogna di avere un corpo morbido, di solito associato con un consumo di cibo imperdonabilmente superiore, o diverso, a quello di un cardellino.
La prima parte del secondo dittico ironizza sulla stupidità dei giudizi sul comportamento. Ho “usato” sempre l’immagine di Atena, nella sua forma crisoelefantina del Partenone, per la sua intelligenza che stride con la distorsione del suo simbolo, la civetta, vista come rappresentante di un comportamento leggero, stupido, seducente e superficiale. Non si può essere intelligenti e voler essere al contempo attraenti, è una colpa.
Il secondo disegno è il più centrale di questo piccolo ciclo e riporta proprio loro, il “circolo del cucito” delle Cariatidi, impegnate a sostenere tutto, altro che Atlante. Dalle loro teste escono le oche starnazzanti, preziose e bellissime, come quelle che hanno salvato Roma dal saccheggio dei Galli dando l’allarme. Anche qui punto il dito sulla miopia di un insulto di genere.
Il mio intento è quello di dare una risposta ironica e ordinata al nemico maschilismo radicato e strutturale della nostra società occidentale che, tra l’altro, fa acqua da tutte le parti.